Che sarà del Made in Italy senza i grandi maestri?
- Milan Fashion Campus
- 27 nov
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 28 nov
Che cosa diventa il Made in Italy quando i grandi nomi non ci sono più?
Gli italiani di domani avranno ancora il coraggio e la capacità di creare aziende, non solo collezioni?

Che sarà del Made in Italy
1. Il fraintendimento sul “Made in Italy”
Spesso si pensa che il Made in Italy sia il nome scritto sull’etichetta o il cognome del fondatore sulla porta. In realtà sono almeno tre cose diverse:
Un sistema produttivoDistretti tessili, pelletteria, calzature, maglieria, sartorie, aziende di accessori, chimica tessile, macchinari. Questo può continuare ad esistere anche senza “il grande stilista” in copertina.
Un linguaggio esteticoUn certo modo di vedere il corpo, il colore, la sensualità, la misura, il lusso non urlato ma costruito sul dettaglio, sulla mano del tessuto, sulla proporzione. Questo nasce da cultura, storia, città, abitudini, non solo da una persona geniale.
Un mito narrativoL’idea del “grande maestro” italiano che dal nulla crea un impero: Armani, Versace, Ferragamo, Valentino. Questa è la parte che prima o poi inevitabilmente finisce, perché le persone non sono immortali.
Quello che sparisce non è il Made in Italy in sé, ma una certa forma di racconto del Made in Italy.
2. Dopo i maestri: cosa rischia davvero l’Italia
Quando i grandi non ci saranno più, il rischio non è solo estetico, è soprattutto di potere:
I marchi finiscono in mano a fondazioni, holding, fondi, gruppi internazionali.
Le decisioni non le prende più “il signor Armani in via Borgonuovo”, ma un board che guarda a KPI, ROI, listing in borsa, non all’anima di una collezione.
Il marchio resta “italiano” di facciata, ma la regia diventa globale, ibrida, spesso più finanziaria che culturale.
In questo scenario il pericolo è che Made in Italy diventi solo una dicitura di produzione, come “100% cotton”, invece che una visione culturale.
L’Italia rischia di diventare solo la fabbrica del lusso, non più il luogo dove il lusso viene pensato.
3. Ci sarà una nuova generazione di stilisti italiani?
Sì, ci sarà. Ma non sarà una “copia” degli anni 80–90.
I giovani designer italiani oggi sono in una situazione a metà tra opportunità e trappola:
Opportunità
Possono farsi conoscere online senza passare per le vecchie porte chiuse delle maison.
Possono costruire micro brand globali, nicchie forti, community.
Possono utilizzare AI, 3D, print-on-demand e altre tecnologie per prototipare, testare, vendere.
Trappole
Giganti del lusso molto consolidati, difficile nascere come nuova “grande maison” indipendente che arrivi ai livelli dei colossi storici.
Mercato saturo, velocità assurda, consumatore distratto.
Precarietà e paura del rischio, soprattutto in Italia, dove fare impresa è complesso e poco protetto.
Quindi sì, una nuova generazione c’è e ci sarà. Ma probabilmente:
più frammentata
meno “mitica”
più imprenditoriale, o fallisce in fretta
più internazionale, spesso divisa tra vivere in Italia e lavorare in sistemi stranieri
4. Saranno capaci di creare aziende, non solo collezioni?
Questa è la parte più delicata.
Creare aziende oggi significa:
saper leggere un conto economico
capire cosa vuol dire margine, cash flow, investimento, equity
pianificare logistica, produzione, fornitori, e-commerce, retail
gestire persone, contratti, tempi, responsabilità
La verità è che molta formazione moda ha creato generazioni di “creativi dipendenti”, bravissimi a fare portfolio, meno a fare azienda.
Se le scuole, gli istituti, i maestri non cambiano approccio, il futuro sarà:
tanti ragazzi bravi a fare moodboard,
pochi capaci a firmare un contratto con un investitore,
quasi nessuno pronto a reggere 10 anni di sacrifici per costruire una struttura vera.
Per avere nuovi “italiani che creano aziende” servono tre cose:
Designer + Business partnerBasta con l’idea del genio solitario. Servono coppie: chi crea e chi struttura, come è avvenuto in molte storie di successo.
Formazione ibridaModa + impresa + digitale. Se non insegniamo ai giovani cosa vuol dire vendere, restano con il sogno e senza strumenti.
Un ecosistema che non schiacci subitoTasse, burocrazia, accesso al credito, incubatori. Se ogni tentativo imprenditoriale è una guerra, molti talenti scelgono di andare all’estero o di rassegnarsi al ruolo di dipendenti.
5. Tre possibili futuri del Made in Italy
Proviamo a immaginare tre scenari.
Scenario A – “La fabbrica del lusso”
I grandi marchi storici continuano, ma in mano a gruppi e fondi globali.
I direttori creativi possono essere italiani, francesi, coreani, americani, non importa.
L’Italia diventa soprattutto il luogo dove si producono capi, scarpe, borse per brand internazionali.
Made in Italy resta forte come qualità, ma non più come voce principale del racconto moda nel mondo.
È un futuro possibile, non necessariamente negativo, ma più “industriale” che culturale.
Scenario B – “Nuova Rinascita italiana”
Qui succede qualcosa di diverso:
Nascono nuove realtà italiane che non cercano di imitare Versace o Armani, ma raccontano l’Italia di oggi:
un paese fatto anche di seconde generazioni, multiculturalità, nuovi corpi, nuovi stili di vita
una sensibilità diversa su sostenibilità, consumo, tecnologia
Non saranno per forza mega colossi, ma aziende sane, riconoscibili, coerenti, con un loro pubblico fedele.
Ogni città, ogni distretto può essere incubatore di micro-maison e brand indipendenti, con produzione locale e comunicazione globale.
Questo scenario richiede una cosa: coraggio educativo e culturale, non solo tecnologico.
Scenario C – “Il museo vivente”
I grandi nomi diventano soprattutto mostre, musei, retrospettive, capsule celebrative.
Si vive molto di archivio, poco di rischio.
I giovani italiani, non trovando spazio, portano il loro talento altrove.
Il Made in Italy sopravvive come nostalgia, ma l’innovazione vera si sposta in altre capitali o in altri sistemi.
È lo scenario da evitare, anche se alcuni segnali di “museificazione” già si vedono.
6. Come si riconosce un “nuovo Armani”?
Non per forza come dimensione, ma come peso culturale. Alcuni segnali:
Ha un linguaggio coerente:stagione dopo stagione riconosci la mano, il modo di trattare il corpo, il movimento, la luce, il tessuto. Non vive solo inseguendo micro trend.
Non urla, ma sposta l’asse:non è rumoroso sui social, ma lentamente cambia ciò che gli altri considerano “elegante” o “moderno”.
Costruisce una struttura, non solo una collezione:crea un team, una filiera, un luogo, un metodo, non è solo “un ragazzo con talento”.
Attira talenti in Italia, non solo li perde:se intorno a lui/lei arrivano giovani stranieri che vogliono imparare “il modo italiano” di lavorare, allora c’è qualcosa di vivo.
Parla al tempo lungo:non usa l’Italia come sfondo folcloristico, ma come laboratorio. Ha rispetto del passato, ma non lo copia.
Quando vedremo qualcuno così, anche se parte piccolo, sapremo che non stiamo guardando solo un brand, ma un nuovo pezzo di storia italiana.
7. La vera domanda è: cosa facciamo oggi?
Il futuro del Made in Italy non si decide “dopo” la morte dei grandi. Si decide adesso, in:
quali valori trasmettiamo nelle scuole
come trattiamo gli artigiani, le fabbriche, i territori
che tipo di mentalità diamo ai giovani:“cerca un posto fisso in un brand famoso”oppure“impara a creare valore, e poi decidi se farlo dentro un’azienda o con la tua”.
In altre parole: il Made in Italy di domani dipende da quanta responsabilità ci prendiamo oggi nel formare persone che non siano solo “operatori della moda”, ma anche costruttori di futuro.
Una riflessione firmata da Angelo Russica,

insieme al suo “collega invisibile”: l’Intelligenza Artificiale.

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